Le arti visive non sono il mio forte. Non le capisco, non le sento, non succede mai che un quadro o una scultura mi prendano quanto un romanzo una canzone una storia raccontata bene. Non so perché, è semplicemente un limite che ho, punto e basta. Vedo gli altri che davanti a un quadro si sciolgono, vanno in estasi, e io lÏ accanto li studio e un poí li invidio, perché a me non succede mai.
Per questo non ci ho fatto troppo caso, quando parecchi amici l’anno scorso mi dicevano “devi vedere i disegni di Collesano, secondo me ti piacciono”. Annuivo, rispondevo “sì sì, uno di questi giorni”, e un attimo dopo già pensavo ad altro. Poi però me l’ha detto pure Francesca: “devi vedere i disegni di Collesano, secondo me ti piacciono”. E lei lo conosce questo problema mio, lei sa di cosa parla, e allora ho capito che questi disegni li dovevo vedere veramente.
Così mi ritrovo a suonare la vecchia campanella che sta davanti alla casa-studio di Andrea Collesano, a due passi dal mare di Forte dei Marmi. Sono curioso, ma anche un po’ scettico, e soprattutto vado di fretta: ho al massimo mezz’ora, poi devo correre dietro agli altri impegni della giornata. Ho poco tempo, ho la testa altrove, insomma questa sarà una tappa rapida del pomeriggio per poi passare ad altro. Ritmo ritmo ritmo.
Ma Collesano mi viene ad aprire, mi fa entrare in casa, e i suoi lavori mi saltano addosso. Dal tavolo dai mobili dalle mensole dalle pareti. Ci poso gli occhi sopra e lo sguardo non si stacca più. Basta un attimo e mi ci perdo dentro, affondo, annego. Collesano intanto mi parla, mi spiega come prepara ogni lavoro, come tratta la carta, quali tecniche impiega. Nella sua voce la modestia entusiasta che è spesso il segno del talento vero. Ma io lo ascolto con mezzo orecchio, perché il resto di me è catturato da quelle figure fisse e insieme libere su uno sfondo senza tempo, le guardo e mi raccontano storie perdute in arrivo da posti lontanissimi, e insieme mi parlano dei fatti di ogni giorno, di cose che mi stanno vicine, a tratti mi parlano addirittura di me.
Quanto tempo sono rimasto lì dentro non saprei, ma non importa. Non avevo più fretta, non avevo più impegni, il resto della mia giornata era cambiato senza scampo. E infatti, quando ci siamo salutati e sono uscito da casa di Collesano, non sapevo più dove andare. No, non potevo stare rinchiuso, mi serviva spazio, aria, salmastro, e sono finito sulla spiaggia. Sulla riva smisurata, che quando non ci sono gli ombrelloni e le sdraio ti spalma davanti la stesa del mare, e davvero capisci di stare in una terra di confine, di immobilità e movimento, di contatto tra due mondi sempre divisi ma uniti, che si limitano e si definiscono a vicenda.
Ed è proprio questo che mi rimbalzava in testa dopo aver conosciuto il lavoro di Collesano: ci sono due mondi. Non sapevo bene che mondi fossero, non lo so nemmeno adesso, ma la sua arte ha fatto con me quello che solo la grande arte riesce a fare: mi ha preso, mi ha stretto e mi ha tuffato di testa in una giostra di emozioni, raccontandomi una grande storia senza usare parole, cantandomi una canzone senza note, poi se n’è tornata agli affari suoi lasciandomi in strada scosso e sperso, a tentare di ricucire i miei legami con la vita intorno. Collesano possiede un segreto prezioso, e gli piace sventolarcelo davanti, mostrarcelo nei tratti di ogni suo disegno, e noi lo abbiamo lì a un palmo eppure non c’è verso di capirlo veramente. Lo vediamo, lo sentiamo, ci inchioda ai suoi animali prodigiosi e ai suoi mondi sommersi, ci sembra quasi di poterlo afferrare, ma in realtà rimane un eterno mistero, sempre un passo più in là di noi, sempre – appunto – segreto. Mi ci scervello spesso, riguardando le sue creature di tratto e spazio, segni precisi che si legano tra loro e sembrano nuotare sul fondo vissuto della carta scura, stracciando i limiti di quel che sarebbe nato piatto e immobile. I suoi disegni possono ricordare le illustrazioni delle vecchie enciclopedie, o gli studi zoologici di secoli lontani, ma al tempo stesso non cíentrano nulla. Quel che Collesano maneggia è la realtà, ma non la nostra. Due mondi appunto, uno lo conosciamo, l’altro ci sta accanto e vive insieme a noi, ma sempre un passo più in là. Ecco perché ai suoi animali sappiamo dare un nome, ma insieme sentiamo che prolificano in un mondo che noi non abitiamo. Collesano non imita la natura. Riesce a catturarla, a posarla sulle sue carte antiche, ma una volta entrata nel suo universo si piega, si accartoccia, si curva a quello che vuole lui. Perché le balene e le meduse di Collesano sono vere, sono vive, le vedi e sembra di averle lì, ma al tempo stesso nuotano in un’acqua che non è la nostra. I suoi cervi, le sue serpi, si spostano su un terreno che non abbiamo pestato mai. Sono animali, siamo animali, in continuo spostamento verso qualcosa che ci aspetta e poi scappa, poi torna ad aspettarci per scappare ancora. E quel qualcosa non sappiamo cos’è, né dove sta, ma ogni tanto per un secondo ci capita di intuirlo con lo sguardo. E proprio lo sguardo mi colpisce nel lavoro di Collesano. Lo sguardo della sua selvaggina, dei suoi pesci, è il nostro sguardo. E quando lo guardiamo, rischiamo di intuire qualcosa di noi stessi. Ma solo per un attimo, poi il mistero se ne torna nella sua tana, e si diverte a chiamarci da dietro il profilo mastodontico di una megattera, dietro il tentacolo prodigioso di un polpo.E noi non lo vediamo più. Ma andiamo avanti sapendo che è lì, da qualche parte.
Fabio Genovesi